Fincantieri, player mondiale indiscusso nella costruzione delle grandi navi da crociera e nel militare, sarà dunque uno dei protagonisti della costruzione del nuovo viadotto di Genova targato Renzo Piano.
Nella storia dei cantieri navali italiani, oggi collocati nel marchio Fincantieri, c’è un illustre precedente: essi sono stati, esattamente novant’anni fa, gli autori di una delle opere d’ingegneria fra le più colossali e maestose del mondo, il viadotto della Polvorilla. Peccato, però, che quella che dovrebbe essere una pagina gloriosa delle nostre imprese nel segno del made in Italy, sia andata perduta nella memoria collettiva. Diventa attuale ora riproporla, attraverso le cronache dei quotidiani del tempo, perché compendia molti aspetti da record che, speriamo, siano di buon auspicio per la nuova impresa genovese.
La storia inizia nell’agosto del 1929 quando i Cantieri riuniti dell’Adriatico, Crda, di Trieste e Monfalcone, allora gestiti dalla famiglia Cosulich, si aggiudicarono in seguito a licitazione pubblica, l’aggiudicazione della fornitura e della messa in opera del viadotto che sorpassa il rio Polvorilla per la linea internazionale da Salta in Argentina al Cile. Un manufatto fondamentale della ferrovia delle Ande, a 4.200 metri d’altezza, il ponte più alto del mondo, con un raggio di curva di 200 metri. L’intera struttura metallica, di circa 1700 tonnellate, fu completate in soli cinque mesi, compreso il tempo impiegato per l’esecuzione dei calcoli, dei disegni d’officina e per l’approvvigionamento del materiale. Fu un risultato straordinario, per l’epoca d’allora, ma anche ai giorni d’oggi in cui la tecnologia ha fatto passi da gigante, anche perché la messa in opera avvenne in un luogo impervio, a oltre 2 mila chilometri da Buenos Aires. Durante l’inverno, si legge nelle cronache del 1930, la temperatura si mantiene di giorno su una media di 9 a 10 gradi sottozero, mentre durante le brevi, e non troppo frequenti, bufere (“viento blanco”) raggiunge dai 25 ai 30 gradi sotto zero. D’estate il termometro raggiunge i 35 gradi al sole, ma a causa della rarefazione dell’aria, la temperatura all’ombra rimane bassissima. La respirazione è resa difficoltosa dall’altezza e in seguito alla mancanza di qualsiasi fonte di energia elettrica vicina, il sollevamento delle strutture si eseguì esclusivamente con verricelli a mano, mentre per la ribattitura e la pitturazione si improvviso invece un’installazione pneumatica, azionata da un locomobile a vapore, trasportato sul posto con difficoltà eccezionali.
Un redattore del Giornale d’Italia, Carlo Dall’Ongaro, in un reportage dal luogo di costruzione, paragonando il cantiere ad un fortino d’alta montagna dei nostri Alpini sul Cengio, scrisse “si ha la sensazione di essersi spinti in un luogo dove non si avrebbe mai dovuto venire. Il vento urla nella valle con accenti tregendali. Le figure degli operai indii, emergenti dalle ombre della notte, calata rapidamente con una prodigiosa ingemmatura astrale, appaiono fantastiche rievocazioni di misteriose leggende”.
Soprattutto sotto l’aspetto costruttivo e ingegneristico questo viadotto rappresenta tutt’ora un’opera di straordinario valore. Esso è lungo 224 metri e poggia su travi portanti, di altezza variabile sino a 56 metri dal suolo. Ciascun pilone è costruito da quattro montanti tralicciati con traverse diagonali e contro diagonali di 14 metri. Per il trasporto occorsero 120 carri da 20 a 30 tonnellate ciascuno. Il contratto fu firmato il 3 dicembre 1929 e i primi materiali arrivarono da Trieste a San Antonio de los Cobres il 17 febbraio 1930 e gli ultimi a Santa Fè il 15 maggio, da dove proseguirono immediatamente per la Polvorilla.
Il quotidiano triestino Il Piccolo così commentò la chiusura dei lavori: “Questo capolavoro della tecnica, il cui successo è venuto ad accrescere la fama dei Cantieri triestini ed a valorizzare sempre più le benemerenze dell’ingegneria italiana, è dovuto all’attività e all’intelligente operosità dell’ing. Cersare Sacerdoti e dei suoi valorosi collaboratori. Ingegneri e tecnici, infatti, si sono prodigati, prima nella costruzione, poi nella posa in opera, lavorando a quella grande altezza, dove non tutti resistevano, tra intemperie e con un freddo intensissimo. Opera questa veramente di pionieri il cui silenzioso e quasi ignorato lavoro rappresenta una bella affermazione dei Cantieri triestini nel campo delle costruzioni metalliche e va ad aggiungersi alle altre vittorie di questa nostra industria, recente quella conseguita con la costruzione del Conte di Savoia che da due mesi è in regolare servizio con pieno successo”. Un immagine del 1935 mostra tutta la maestosità del manufatto completato.
Fincantieri, erede della gloriosa tradizione dei cantieri di Trieste e Monfalcone, che oggi è impegnata nella realizzazione delle navi da crociera fra le più belle e grandi del mondo, è chiamata a rispondere a una nuova sfida sulla quale sono accesi tanti riflettori. Alcune dei passaggi legati alla ricostruzione del ponte di Genova di questi ultimi mesi sono stati contraddittori e maggiore è quindi l’aspettativa.
Peraltro, ancor oggi, il viaggio sulla ferrovia delle Ande conserva una grande suggestione ed è un elemento di attrattiva turistica. Si parte dalla stazione di Salta per percorrere sulla strada ferrata, tra zig zag e viadotti, la Valle de Lerma, fino alla Quebrada del Toro, uno dei punti panoramici più spettacolari del tragitto, arrivando a La Puna, al confine con il Cile, per 217 chilometri, fra gli aridi e spettacolari paesaggi della Cordigliera Argentina. Sul viadotto della Polverilla il treno si ferma e poi percorre il lungo tratto dove il paesaggio maestoso lascia spazio al brivido e all’adrenalina: niente parapetto, solo un binario che non si vede dal finestrino. Sembra d’essere seduti su un vagone sospeso tra le nuvole e per questo esso viene chiamato appunto il Tren a las Nubes.